“Cecità clandestina” ovvero, perché un giornalista scientifico decide di raccontare la propria storia?
Di Paola Emilia Cicerone
In realtà le prime pagine di questo libro sono nate in tempo reale.
Mentre imparavo a fare i conti con il blefarospasmo, il disturbo neurologico che mi ha fatto vivere da “quasi cieca” per sei mesi, mi sono trovata più volte a comporre nella mia mente le frasi con cui poi avrei descritto quanto stava succedendo.
Una bella storia è una bella storia, anche se la protagonista sei tu. E nonostante la paura e le difficoltà mi sono trovata a pensare che quegli occhi che si aprivano o chiudevano senza senso apparente, e quegli stratagemmi scoperti poco a poco per riuscire a muovermi in relativa autonomia, e persino a lavorare, erano degni di uno dei personaggi di Oliver Sacks. Così mi sono messa a scrivere, appena recuperata la vista a sufficienza da poter stare al computer più dello stretto indispensabile. Poi la storia è rimasta per un po’ nel cassetto, anzi nel computer: la svolta è stata la decisione dei colleghi di Mente &Cervello di pubblicarne uno stralcio, e poi l’incontro con il mio editore e la sua collana di Medicina Narrativa.
E’ stato discutendo in casa editrice che mi sono resa conto che la mia non era solo una storia bislacca e a tratti divertente, e che poteva essere utile a qualcuno. Perché quanto accaduto mi aveva costretto a testare in diretta la difficoltà di far dialogare una medicina sempre più tecnologica e standardizzata con l’esperienza soggettiva di un paziente che cerca risposte forse non perfette ma tagliate sulle sue esigenze. La mia storia ruotava intorno a una serie di contraddizioni, alcuni medici mi avevano dato risposte che non ero disposta ad accettare, altri senza fornire troppe spiegazioni avevano costruito insieme a me un percorso di cura efficace. E’ nata così l’idea di completare il mio diario con il punto di vista di chi mi ha seguito, e di integrarlo con un saggio in cui analizzo la mia esperienza di paziente un po’ speciale.
Perché io conosco Pub Med, e sono capace di muovermi on line, ma ho avuto il batticuore come chiunque abbia un problema di salute poco definibile mentre elencavo su Google i sintomi di cui soffrivo, sperando in una risposta rassicurante, e poi studiando per individuare le possibili terapie e le loro percentuali di successo. E come chiunque altro fatto i conti con le indicazioni allarmanti dei “bugiardini” e con medici disponibili e altri poco portati a mettersi nei panni del paziente che hanno di fronte. Il ricordo di quanto vissuto ha fatto emergere altri ricordi: sono stata una paziente poco paziente per tutta la vita, e avevo solo dieci anni quando, ricoverata al Policlinico di Roma per un disturbo piuttosto grave, dissi a un‘infermiera stupita mi sarei fatta fare un’iniezione solo se mi avesse detto cosa c’era in quella siringa e a cosa servisse. Io sono convinta che il rapporto medico/paziente debba essere basato sul rispetto reciproco ma anche sul dialogo, che sono riuscita a instaurare con le dottoresse che mi hanno seguita. E ripensandoci mi sono resa conto di aver vissuto in prima persona quell’integrazione tra tecniche e medicine diverse – dall’agopuntura alla psichiatria, alla meditazione – che mi sembra in molti casi la risposta più efficace alle esigenze dei pazienti. Anche per questo, ho scelto di non nominare i medici che durante questa vicenda o in altri momenti, mi hanno delusa e allontanata.
Credo che raccontare queste esperienze possa essere utile, ai pazienti che si riconosceranno nella mia stori ma soprattutto ai medici o futuri medici che spero vorranno leggerlo. Ma questo libro non è un j’accuse ed io non sono una vittima della malasanità: ho incontrato persone preparate e competenti che però, in alcuni casi, non sapevano o volevano creare un rapporto col paziente. Spingendomi a uscire dal loro studio sbattendo più o meno metaforicamente la porta e, alla fine del percorso, a scrivere le pagine che spero leggerete.
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